Ingresso in Diocesi

Video inizio ministero episcopale (27 aprile 2014)

Omelia S.Messa del 27 aprile 2014

Vi saluto con gioia in questa seconda domenica di Pasqua.
Nel ringraziarvi per avermi accompagnato in questo giorno di inizio del mio ministero nella diocesi di Lanusei, chiedo a me e a voi di lasciarci subito conquistare dalla Parola di Dio donataci in questa domenica.
Lo faccio partendo da una domanda che risuona indirettamente nelle Letture proclamate: Dopo la Pasqua quale Chiesa siamo chiamati ad essere? E ancora: Qual è la differenza tra una comunità pasquale e una che non ha incontrato il Risorto?
 
Subito si impone una chiarificazione. Noi sappiamo che la prima comunità cristiana intrecciò la sua esperienza con quelle delle altre comunità non credenti, e se anche gli Atti degli Apostoli ci informano che i “fratelli godessero la stima di tutto il popolo” è chiaro che essi si mescolavano senza difficoltà con tutta la gente.
 
Eppure è una comunità diversa! E questo dovrebbe essere la nostra forza interiore e non solo.
 
Una comunità che ha intanto un originale senso degli affari: “Chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno”. Perché nessuno fosse bisognoso, dunque. Di pane e di Parola, di gioia e di speranza nel futuro.
 
Certo, gli Atti non ci negano, insieme a questo quadro ideale, anche le ombre di una comunità comunque umana, ma quello che appare chiaro è la volontà di questi primi cristiani di realizzare un progetto diverso, quasi folle rispetto ai modelli abituali.
Producevano segni visibili e leggibili da tutti. “Avvenivano prodigi e segni…” dicono gli Atti. Insomma, era gente che non credeva solo nei miracoli, li faceva anche!
 
Poi una comunità pasquale non solo liturgica, con il primato indiscutibile dato alla Parola, perseverante nello spezzare il pane e nell’organizzazione fraterna; tutto in un clima di semplicità e letizia.
Una comunità, altro dato che ci giunge dall’apostolo Pietro, “custodita mediante la fede” che incoraggia noi a non lamentarci degli  insuccessi della fede; come a dire che non siamo noi che custodiamo la fede, ma è la fede che custodisce noi.
 
E’ un insuccesso anche quello degli apostoli, che non riescono a convincere uno di loro che il Crocifisso era risorto. Avevano visto e sentito dire da Gesù: “Pace a voi”, aveva loro mostrato le ferite e avevano gioito nel vederlo. Ma Tommaso, assente alla prima apparizione non è convinto e non si lascia convincere. Non basta che gli dicano: “Abbiamo visto il Signore!”
Anche noi continuiamo a fare esperienza della povertà delle nostre parole e anche delle resistenze del cuore a credere, del nostro cuore prima di tutto.
 
Tommaso rappresenta noi – anche come comunità – quando siamo ossessionati dall’avere, dal sapere e dal potere, donne e uomini che non riescono a scoprire il senso autentico della vita, incapaci di andare oltre il visibile e il verificabile; persone mutilate nello spirito che non conoscono la bellezza dello stupore, dell’intuizione e della poesia.
Ma quando Tommaso, incredulo per metodo, si trova di fronte il Crocifisso ormai risorto e disposto a soddisfare la sua curiosità, improvvisamente rinuncia a ogni verifica è dà la vera, grande risposta, che come singoli e come comunità ci fa sperimentare il vero senso della Pasqua: “Mio Signore e mio Dio!”.
 
Ecco allora la comunità pasquale, la Chiesa nata dalla Pasqua. “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno”. E’ la beatitudine dei credenti. In fondo, il vero grande miracolo di sempre è credere.
 
Quando diventiamo una comunità davvero credente? La risposta ci viene dalle parole di Pietro nella sua Lettera: quando “abbiamo una speranza viva!”.
 
Non siamo eredi di tradizioni morte perché in ognuno di noi, grazie al dono dello Spirito, si accende un nuovo rapporto con Gesù risorto. Quella comunità che dopo la morte di Gesù si chiude nella paura, all’improvviso diventa – dopo la manifestazione di Gesù risorto – una comunità unita e coraggiosa.
 
Ed ora il compito, la missione: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Ecco l’atto di nascita della Chiesa, il coraggio di Dio di che non ha paura della nostra debolezza.
Siamo sempre la Chiesa di Pietro e di Giuda e, nello stesso tempo di Maria e di Giovanni; siamo la Chiesa dove cresce insieme il grano e la zizzania; eppure a questa Chiesa Gesù ha dato e consegnato il lievito della risurrezione, il Vangelo della pace, il compito di perdonare e di salvare.
 
Ma Gesù non conosce forse le nostre debolezze? Certo! Non per niente il primo compito che la Chiesa riceve da Cristo Risorto è quello di perdonare: “Ricevete lo Spirito santo. A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li riterrete saranno ritenuti”.
La Chiesa è il luogo dove si celebra la misericordia di Dio. E questa seconda domenica di Pasqua per volere di Giovanni Paolo II è festa della Misericordia divina. Il credente non si scoraggia per i propri peccati, ma ugualmente non si scandalizza per i peccati degli altri. Egli sa che può sempre chiedere perdono, ma deve imparare a perdonare senza condannare né giudicare.
 
Parliamo di una Chiesa che, come il suo Signore, è sempre bella e ferita. Giovanni nel Vangelo ci presenta un Gesù che non nasconde, ma quasi esibisce le sue piaghe: il foro dei chiodi, il costato… Piaghe, che avremo pensato la risurrezione avrebbe rimarginato, cancellato per sempre. E invece no!
 
Perché la Pasqua è la continuazione, il frutto maturo della Passione. Le piaghe restano, anzi proprio a causa di esse Gesù è risorto. Esse sono il segno di un amore incancellabile, perché quando le piaghe sono offerte con amore le ferite non sfigurano, ma trasfigurano.
Dico a me e a voi oggi: la nostra debolezza, come quella di Pietro, dei discepoli, di Maria Maddalena, non è un ostacolo, ma una risorsa per seguire meglio il Signore. La debolezza non è più un limite, ma diventa un’opportunità. Le ferite ci permettono, proprio perché guarite dall’amore di Dio di guadagnarci la sua pace. Pace a voi. State in pace.
 
Credo, non da oggi, che un maestro – qualsiasi cosa insegna – si riconosca dai segni della sofferenza che porta. Diffido di chi non ne ha o non vuole averne.
Anche un maestro nella fede sa soffrire, magari anche lamentandosi, protestando o facendo appelli in nome del Vangelo…
Lo fa se ama e perché ama. E se ama soffre e ha evidenti ferite d’amore.
 
Anche un vescovo, ad immagine del Buon Pastore,  che ama il suo popolo non sarà esente da sofferenze e ferite; ma questo lo renderà credibile.
 
Una comunità pasquale infine non ha paura dei Tommaso. Per chi ha fede l’incredulo non è un avversario, ma uno da amare; sentendosi amato capirà.
La prima comunità suggerisce anche a noi di non chiudere la porta in faccia all’uomo del dubbio. Anche perché sappiamo, dovremo imparare nuovamente a capire che la difficoltà a credere, per molti, non è costituita dall’invisibilità del Risorto.
Il guaio grosso, l’impedimento, troppo spesso, è rappresentato dalla troppa – diciamo così – visibilità dei cristiani.
Sì, “beati quelli che pur non avendo visto crederanno”, ma aggiungiamoci pure, “beati quelli che, pur avendo visto, continueranno a credere…”.
 
Che Dio con la sua grazia rende me e voi testimoni del Risorto e ci faccia vivere come una comunità che ama il mondo con cuore materno, testimoni della misericordia di Dio.
Ad immagine di Maria, donna dell’ascolto e della sequela; mamma nella sofferenza e nella gioia; Madre della Chiesa nata con la Pasqua del suo Figlio.
 

Saluto e ringraziamento al termine della S.Messa del 27 aprile 2014

In un giorno come questo ci si aspetta magari dal nuovo Vescovo che le sue parole inaugurino un programma. Spero di non deludervi se vi dico che ci sarà tempo e modo per farlo.
Oggi è soprattutto la celebrazione di una esperienza di Chiesa che cammina nel tempo, sulle orme del suo Signore Risorto, dove anche la chiamata a diventare successore degli apostoli è solo una tappa del grande progetto di Dio per l’umanità.
 
Vi dico comunque che sono felice di stare qui, a camminare con voi come credente e con il dono del ministero episcopale. E ne ringrazio Dio e la sede apostolica guidata dal nostro papa Francesco.
 
Ma sono felice che in questo giorno due grandi testimoni della fede come Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II  – coincidenza che ci apre allo sguardo universale della Chiesa – siano stati riconosciuti come modelli di santità per voi e per la mia vita. Vorrei ricevere in dono come pastore la bontà e la capacità profetica del papa che ha inaugurato il Concilio Vaticano II, così come il coraggio e forza missionaria di papa Wojtyla.
 
Saluto e ringrazio con voi i Vescovi Mauro Maria Morfino e Pietro Meloni. Oltre al dono della comunione episcopale rappresentano tappe importanti della mia vita fino ad oggi. Estendo il saluto a tutti i sacerdoti provenienti dalla diocesi di Alghero-Bosa e da altre diocesi, unitamente alle persone delle comunità di Bortigali, Villanova Monteleone e Bosa, oltre ad Alghero e in particolare alla folta rappresentanza di giovani e adulti della parrocchia del SS. Nome di Gesù. Grazie di cuore. Sento vicino umanamente e mi conforta non poco mia madre, la famiglia di mia sorella, i parenti e gli amici che mi accompagnano, anche solo con la preghiera.
 
Mando con tutti voi un saluto affettuoso a Mons. Antioco Piseddu, mio predecessore in questa diocesi. L’ho sentito ieri e mi ha incoraggiato ancora una volta a camminare con fiducia.
 
A ciascun battezzato della Diocesi che mi è stata affidata, ai presbiteri, ai diaconi, ai seminaristi, alle religiose e religiosi, ai componenti di associazioni e gruppi, a tutti coloro che  fanno parte delle comunità parrocchiali, prometto di camminare con discrezione, fedeltà e passione evangelica insieme a voi.
Percepisco molta attesa nei miei confronti e spero che Dio mi dia forza e fede per starvi accanto ad immagine di Gesù Buon Pastore.
Sento di promettervi soprattutto due impegni, due punti di riferimento essenziali: L’impegno di accompagnarvi con il Vangelo per condividere la passione per il regno di Dio e l’impegno di stare vicino ai presbiteri, perché senza di loro non posso far nulla.
Vorrei per me, per questi compiti – e lo chiedo a Dio anche oggi -, uno stile umano e spirituale che costruisce relazioni attraverso il dialogo e la comunione. Perché non posso, non devo, soprattutto non voglio fare tutto da solo
 
Ma oso chiedere qualche impegno anche a voi, soprattutto vi chiedo che se anche solo per un momento me lo scordassi, di ricordarmi che sono in mezzo a voi per servire.
Ricordatemi che se salgo sulla sede episcopale non è per un privilegio ma per servire.
Ricordatemi che se ho un anello, un pastorale e una mitria, non è per altro se non per amare di più.
Ricordatemi che niente è più importante, niente viene prima, niente posso anteporre al compito di servire e di amare con gli stessi sentimenti di Gesù.
 
Come faceva dire lo scrittore francese Bernanos a Giovanna d’Arco: “Per essere santi quale vescovo non darebbe il suo anello, la mitria e il pastorale?… tutto il grande apparato di sapienza, di forza, di disciplina e di magnificenza della Chiesa è nulla se la santità non lo anima”.
 
Mi assista in questo cammino e mi protegga la Madonna del Rosario d’Ogliastra, grazie anche all’intercessione di San Giorgio di Suelli, primo Vescovo di questa terra.
 
Concludo con la preghiera allo Spirito Santo a cui sono molto legato e che troverete nell’immaginetta che verrà distribuita al termine della Messa:
 
O Spirito Santo, amore del Padre e del Figlio, ispirami sempre ciò che devo pensare, ciò che devo dire e come devo dirlo.
Ciò che devo tacere, ciò che devo scrivere, come devo agire e ciò che devo fare.
Per cercare la tua gloria, il bene delle anime e la mia santificazione.
O Gesù, è in te tutta la mia fiducia.
 
Grazie. Vi abbraccio tutti!